BABYLON - (2022) di Damien Chazelle
L'esaltazione e lo smantellamento del Sogno Hollywoodiano
LA TRAMA E’ SEMPLICE: Hollywood degli anni ’20, assistiamo alle peripezie di Manuel Torrez, giovane tuttofare messicano di belle speranze che sogna di diventare un pezzo grosso del settore ma dovrà guardarsi dagli eccessi di questo folle mondo e di chi lo popola, assistendo un divo del cinema muto avvezzo ai bagordi e innamorandosi di una promettente stella tanto fascinosa e dissoluta quanto instabile e dipendente dall’alcool, le droghe, i festini e il gioco d’azzardo.
Il tutto mentre i tempi e le mode cambiano, il Cinema comincia a farsi sonoro e a colori e verrà introdotto l’inflessibile Codice Hays.
COSE Che COSANO: fra i tanti tributi e omaggi al Potere della 7^Arte e la celebrazione delle sue immagini, Chazelle non poteva sottrarsi dal dire la sua, calando i personaggi stratificati ed insicuri tipici della sua filmografia in quest’ottica.
E il ritratto che ne deriva non poteva che essere esplosivo, glamour ed esagerato come d’altronde è il mondo del cinema e coloro che lo resero grande.
La Hollywood degli anni ’20 è una vera e prorpia giungla pregna di possibilità, di dissolutezze e di pericoli. Dove per restare a galla devi dominare sugli altri a qualunque costo e con ogni mezzo.
E il sistema che la regola e si evolve in base alle circostanze non è da meno: crea divinità terrene, caricandole di aspettative e ambizioni ma che quando passano di moda o combinano qualche bravata, le abbandona e le rigetta come dei giocattoli vecchi o rotti che non divertono più. Lasciandoli in balia della pesante ombra di loro stessi e di ciò che erano stati (o sarebbero potuti essere ancora), delle loro insicurezze e delle promesse infrante.
Tutti disposti a qualunque cosa pur di non essere dimenticati, avere attenzioni e lasciare il segno attraverso i tempi che cambiano e continuare ad essere venerate e a servire quella macchina di sogni, successo ed illusioni che li ha creati, resi grandi e di cui non potranno fare a meno. Perdendo anche di visti i motivi che li hanno spinti ad intraprendere quella carriera.
O si trova il modo di evolvere, di mettersi in pari (e mettere la testa a posto) o si finirà per soccombere.
E per lenire il peso di tutto ciò e fuggire dalle responsabilità si danno feste sfrenate nelle quali concedersi ad ogni trasgressione, eccesso e depravazione.
Eventi turbo-goliardici che assumono addirittura connotazioni rituali di statura epica, finché poi non verrà introdotto il proibizionismo che segnerà tempi durissimi per i divi che non riescono a fare a meno di codeste frenesie.
Il volenteroso Manny di Diego Calva rappresenta un po lo sguardo vergine di un po tutti noi nell’entrare per la 1^volta nello showbiz. Un novello Dante curioso ed incantato dallo sfarzo e lo splendore del Cinema, platonicamente innamorato di una stella nascente ma allo stesso tempo atterrito e spiazzato dai suoi lati oscuri e dalla follia di chi vi opera, oltre che dall’auto-distruttività dell’amata.
Il Jack Conrad di Brad Pitt è un divo affermato quanto stralunato e vizioso che dopo una carriera costellata di successi, purtroppo dovrà scontrarsi con una nuova realtà nella quale si scoprirà tragicamente inadatto ed obsoleto.
Anche se la palma al miglior personaggio spetta alla Nelly LaRoy di una Margot Robbie con l’argento vivo addosso: bella da mozzare il fiato, intraprendente, dissoluta e imprevedibile quanto tragicamente instabile, bisognosa di essere compresa ed amata e non sempre forte abbastanza per reggere le ambizioni di cui si fa carico, finendo per auto-sabotarsi in diverse occasioni e compiere scelte sbagliate, malgrado il successo tanto inseguito e toccato più volte e malgrado le premure del povero Manny nel tentare di tenerla lontana dai casini e proteggerla da sé stessa.
Divertente risulta anche l’apporto degli altri personaggi: da una Samara Weaving, acerrima rivale del personaggio della Robbie (dalla quale viene spesso vessata) ad un’inedito Tobey Maguire gangster squallido e sopra le righe (peccato sia meno presente del previsto); da Li Jun Li, cantante/cabarettista asiatica che scrive i dialoghi dei film muti a Jovan Adepo trombettista jazz afro-americano e Jean Smart giornalista sensazionalista; agli amichevoli camei dei vari Spike Jonze, Flea, Olivia Wilde, Eric Roberts e Taylor Hill.
Tutte quante figure che però avrebbero meritato maggior approfondimento.
Figure, immaginari e circostanze immortalati dalla messa in elegantemente barocca di Chezelle, un montaggio incalzante e una fotografia caldissima e colorata che danno risalto alle iconografie, ai costumi dell’epoca e alle mastodontiche goliardate. A fare da cornice ideale al tutto ci pensa la spericolata colonna sonora di stampo Jazz e Swing curata da un Justin Hurwitz a dir poco impagabile.
Certo non tutto è perfetto in questa giostra: la lunghezza è forse eccessiva e se non snellita poteva esser impiegata per approfondire meglio gli altri personaggi e gli spaccati sociali che rappresentano, inoltre nella sua potenza visiva e nei suoi oltranzismi rischia di diventare ridondante, mantenendosi però coerente con i tempi che traspone e con i personaggi che quel periodo l’hanno vissuto e reso ciò che è.
Un’affresco storico sognante eppur selvaggiamente lucido che si pone perfettamente a metà strada tra le celebrazione del mito hollywoodiano e del suo smantellamento dovuto ai suoi lati oscuri, la sua disillusione e di come questo possa essere crudele con i suoi stessi artisti e sognatori. Di come, nonostante tutto il marcio e la follia che ne fanno parte, il mezzo cinematografico possa evolversi con il passare degli anni, definirli e continuare a deliziare ed ispirare generazioni di spettatori e di creativi che verranno.
Nel bene e nel male, il Cinema è (ed è stato) anche questo.
VOTO: 7/8
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