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PROFONDO ROSSO (1975) - di Dario Argento

L’intramontabile evergreen del Cinema Horror nostrano



La TRAMA E’ SEMPLICE: Roma, metà anni ’70, durante una conferenza sul paranormale, la sensitiva tedesca Helga, durante una seduta viene sopraffatta dal terrore e lo sgomento dati dalle vibrazioni malevole di un misterioso omicida che si trova nelle vicinanze. Una volta rientrata nella propria stanza d’appartamento viene brutalmente assassinata dal suddetto killer.


L’unico a venire in suo soccorso è il jazzista Marc Daly che abita lo stesso stabile e che in quel momento era in pausa assieme al collega-musicista Carlo (individuo dotato ma instabile, vizioso e avvezzo all’alcolismo). Giunta la polizia viene indagato più come sospettato che come testimone, l’unica a supportarlo è l’emancipata giornalista Gianna Brezzi.


I due cercheranno di fare luce sull’accadimento ma il killer è sulle loro tracce, tenterà di ostacolarli e sviarli in ogni modo e ogni volta che si avvicineranno alla verità o alle testimonianze di chi potrebbe aiutarli, lascerà una scia di morte al proprio passaggio, sempre accompagnata da una canzoncina per bambini. ANALISI & CONSIDERAZIONI: correva la metà dei ruggenti anni ’70, dopo essersi fatto un nome in ambito thriller-giallo con la “trilogia degli animali” (L’Uccello dalle Piume di Cristallo, Il Gatto a 9 Code e 4 Mosche di Velluto Grigio) e un film storico su commissione e fuori programma (Le 5 Giornate), l’Argento nazionale decise di virare il proprio cammino artistico verso il Cinema di Genere, più precisamene nel filone orrorifico. E fu con “Profondo Rosso” che riuscì a farlo suo e ad affermarsi come una delle voci più autorevoli in materia.

Il regista romano preso da non si sa bene quale furore divino, orchestra ed erige un perverso gioco d’illusioni, investigazioni e false piste dove tutto può succedere, nulla è come sembra e le certezze che ci facciamo potrebbero venir ribaltate in ogni momento, come ogni spazio può cambiare (specchi o dipinti? Immagini celate? l’occhio che non arriva dove arrivano invece gli altri sensi?) e può uccidere (dai vetri delle finestre agli spigoli di un mobile o di un caminetto, dall’acqua fin troppo calda fino agli ascensori). Facendosi beffe dei dettami imposti dai generi, dei sensi e della logica. Come l’identità dell’assassino che in realtà ci viene mostrata già dopo 10 minuti (quando solitamente nei film dell’orrore vige la regola di non mostrare mai fin da subito, o comunque meno volte possibile, la mente criminale dietro tutto) ma siamo talmente presi a seguire la vicenda da non averci fatto veramente caso o se ci abbiamo fatto caso, come il protagonista non riusciamo a capacitarci cosa possa esserci sfuggito e se ci fosse stato effettivamente un senso.

Tutto ciò grazie all’ottima gestione dei tempi, del ritmo, della tensione e nella costruzione degli avvenimenti, grazie al semplice piacere di proporre la propria visione su come fare cinema, di giocare con gli spettatori e i personaggi tradendo fino all’ultimo le loro aspettative (James Wan & Leigh Whannell ne sanno qualcosa, ma d’altronde non è il cinema stesso, fra le tante cose, finzione ed illusione?), sviandoli, destabilizzandoli (merito anche dell’suo sapiente di inquadrature ed angolazioni ravvicinate) ed imponendo IL SUO controllo della situazione. Come un direttore d’orchestra.

E come senza apparente senso sembrano le azioni del killer. Il modo con cui veniamo messi in guardia dalla sua presenza segue uno schema determinato: improvvisa nenia infantile di sottofondo; ripresa ravvicinata di mani guantate e strumenti di morte (o di inquietudine); tensione che si appresta ad esplodere, il massacro che si finalmente si compie (il più delle volte in maniera diversa anche se le mani omicide sono sempre quelle dello stesso regista che ad ogni pellicola sadicamente si diverte a rivestire i panni di quelle grinfie che strappano di dosso la vita ai poveri malcapitati) e l’orrore viene subito.

A pari merito con la regia e le intuizioni del Dario, un lavoro FON-DA-MEN-TA-LE lo svolgono le musiche dei Goblin di Claudio Simonetti (su spunti del compositore Giorgio Gaslini), la cui energia esecutiva rafforza la messa in scena, il ritmo, la concatenazione degli eventi e il senso onirico che permea il tutto, rendendo ancor più tangibili, palpabili ed enfatiche la tensione e la suspense. Anche solo con poche semplici note malefiche che in men che non si dica ci rendono da subito partecipi e ci invitano a non abbassare la guardia (e pensare che inizialmente si pensò ai Deep Purple per la soundtrack del film).

Lo stesso film potremmo considerarlo come un’enorme composizione jazzata, che segue schemi metrici pre-stabiliti tutti suoi per poi sovvertirli e reinventarli, si prende i suoi tempi per raccontare ed inscenare, divaga, si evolve e quando si compie lo fa in maniera imprevedibile o inaspettata.

Lo scenario prevalentemente Torinese scelto, ha sicuramente il suo bel perché avvalendosi di location d’impatto quali: Piazza CLN, un bar nelle vicinanze allestito come un quadro di Edward Hopper, il Teatro Carignano e Villa Scott. Passando per gli eccelsi effetti speciali curati da Carlo Rambaldi, fra i quali un bambolotto a molla in bicicletta dal sorriso disturbante che comparirà all’improvviso per spiazzare ed essere fatto a pezzi (anche qui James Wan & Leigh Whannell gli debbono qualcosuccia).


Mentre gli attori risultano tutti credibili e in parte, oltre a prestarsi generosamente alle follie del regista: da un David Hammings [doppiato da Gino La Monica] sul protagonista, tanto brillante come musicista ma decisamente goffo e ingenuamente maschilista nel modo di rapportarsi ma anche estremamente determinato; una convincente Clara Calamai nei panni di… eehhh vedrete; un Gabriele Lavia [doppiatore di Hugo Weaving in “V for Vendetta” e di Stanley Tucci ne “Il Diavolo Veste Prada”] giustamente ambiguo e instabile; i sipari comici del Commissario interpretato da un sempre perfetto Eros Pagni [grandissimo attore teatrale, nonché voce del Sergente Maggiore Hartman in “Full Metal Jacket”, di Frollo ne “Il Gobbo di Notre-Dame”, Tzekel-Kan di “El Dorado” e di Shifu nel trittico di “Kung-Fu Panda”].


Ma a rubare la scena a tutti (pure al protagonista) ci pensa la giornalista Gianna Brezzi resa con grinta, fascino, intraprendenza e fare sbarazzino dalla buonanima Daria Nicolodi [ai tempi compagna e musa del regista, nonché madre di Asia], un personaggio adorabile ad ogni scena che la vedrà presente.

In conclusione, “Profondo Rosso” è un classico intramontabile tanto del cinema di genere che per LA Storia del cinema tricolore, musicato da De-Cristo, realizzato da un autore allora in uno stato di brutale grazia (peccato che da un po' di tempo sia divenuto la brutta copia di sé stesso, se penso a quanto gli si debba) che portò un determinato modo di concepire certi film in una dimensione tutta nuova, sovvertì le regole, creò nuovi dettami, diede un qualcosa in più e fece scuola.


Tutt’oggi, pur venendo a patti con alcune bonarie e volute ingenuità, è una pellicola godibilissima dal fascino e la classe inalterati. E che se preso nel modo giusto ancora può sorprendere e far male.

VOTO: 9

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